Editoriali

donbeniamino adorno

Monsignor Forte, Theodor  Adorno e Don Beniamino

SAN SALVO | C’è stata ieri la cerimonia di “insediamento” del nuovo parroco di San Nicola. Che di parroci, finora, ne ha avuti quattro: Don Piero Santoro, che la creò e che ci rimase per trent’anni; Don Domenico Campitelli, che ci rimase per cinque anni;

Don Michele Carlucci, che ci rimase per poco tempo. Ed ora è il tempo di don Beniamino Di Rienzo. Per capire perché il primo parroco – fondatore ci rimase tutti quegli anni e gli altri così poco tempo (col terzo che fu platealmente contestato) bisogna vedere anzitutto che tipo di comunità è quella di San Nicola. E’ un’analisi che faccio ben volentieri e che, se vuole, il nuovo parroco potrà tenere in conto…bontà sua).

La Parrocchia di San Nicola fu fondata all’inizio degli anni settanta, allorquando la città stava subendo almeno tre mutazioni: nella stratificazione sociale (da un borgo contadino a cittadina industriale); nel numero degli abitanti (da tremila ai diecimila a fine di quel decennio); nella cultura (da paese povero e paludoso di emigrazione a cittadina ricca ed infrastrutturata di immigrazione, con l’arrivo di migliaia di nuovi abitanti dalla Campania, dal Molise e dal vastese interno). Le tre ricordate mutazioni inviavano forti impulsi di coesione sociale, che il nuovo parroco seppe intelligentemente intercettare, diversamente dall’altro parroco, che era anziano, stava qui dall’immediato dopoguerra ed era sostanzialmente “preconciliare” e molto formale nei modi e nella sostanza. Il nuovo parroco di San Nicola, invece, era aperto ed inclusivo ed aggregava giovani ed adulti di ogni provenienza geografica e di ogni formazione culturale. Nei primi dieci anni, lui che portava i capelli lunghi, agganciò giovani capelloni, contestatori e piccolo borghesi , riuscendo a conciliare Don Milani (di cui aveva il quadro nello studio) e Remo Gaspari (di cui era amico personale). La prima ed unica scissione la subì solo a metà  anni ottanta ad opera di un gruppo che tornò all’altra Parrocchia, ma la cosa passò quasi inosservata, abituati come si era al contrario. Don Piero nei suoi trent’anni: fu fucina trasversale di tutta la classe dirigente locale (di centro e di sinistra); inventò il vivaio nel calcio; fece scoprire i campeggi estivi; diresse di fatto la scuola media; fu personale punto di riferimento finanche di gruppi finanziari, che costruirono un affermato Istituto di credito; fece costruire la Chiesa, che ovviamente diventò il simbolo identitario della Comunità; organizzò eventi culturali secondi solo al meeting di Rimini. Con simili concrete realizzazioni, è chiaro che per il successore (che pure era un bravo parroco) sarebbe stata dura. Peraltro, i parrocchiani ed i collaboratori, per quanto di forte, dinamica e creativa e personalità, erano abituati ad un Don Piero coinvolgente e disponibile.  Tutti sappiamo che in una parrocchia, in qualunque parrocchia del mondo, comanda il parroco. Eppure don Piero sapeva dare a ciascuno l’impressione di essere importante, forse per una sua innata capacità di ascolto e di confronto anche col più umile dei parrocchiani o dei cittadini. Quel che successe al secondo parroco (il problema con drogati che, approfittando della sua bontà, lo ricattavano, cosa che finì finanche oggetto di un comizio politico di un ex deputato) non sarebbe mai successo al parroco fondatore, perché quest’ultimo a presidio della sua incolumità avrebbe coinvolto non i carabinieri, ma i parrocchiani. Non parliamo di ciò che fece il terzo parroco, che si mise contro tutti sull’idea di dover demolire la Chiesa, riuscendo addirittura a far firmare un’ordinanza al sindaco, la cui revoca di ieri (senza lavori) certifica che al tempo la chiusura  poteva non essere ordinata. Ma se uno va dal sindaco a ripetere che la propria casa sta crollando, è chiaro che induce in errore finanche il primo cittadino.

Cerchiamo di capire adesso cosa non funzionò soprattutto nel terzo parroco e forse anche nel secondo. I parrocchiani, a partire dai più vicini, sono molto identitari e, quindi, vogliono sentirsi considerati e partecipi. Sanno obbedire certo, ma vogliono prima essere coinvolti e convinti. Il punto è che per convincere gente istruita e con status importanti in città e nelle aziende ci si deve parlare, ci si deve perdere tempo e capirne i punti deboli, come Don Piero faceva abilmente. Se Don Beniamino vorrà restare più tempo di Don Michele ed anche di Don Domenico deve ispirarsi a Don Piero, non certo rinunciando alla sua idea di pastorale o appiattendosi ad un predecessore che forse neppure conosce. Deve saper ascoltare i suoi collaboratori, essere disponibile nei confronti e nei dialoghi, anche con l’ultimo parrocchiano. Poi se è bravo gli farà fare ciò che vuole, ma non deve mai essere sbrigativo, rude, autoritario. Insomma, deve saper essere un leader democratico, nel senso che intende la scuola di Francoforte. E sono convinto che Don Beniamino lo sarà, non perché io lo conosca, ma perché mi è nota la sapienza teologica e filosofica dell’ arcivescovo Bruno Forte. Il quale Adorno lo legge in tedesco corretto e, quindi, avrà finalmente capito che San Nicola, se non la si vuole sfasciare, ha bisogno di un prete, che sa essere un leader democratico. Sono convinto che stavolta Mons. Forte ha mandato Don Beniamino, perché saprà essere un parroco dalla leadership democratica. 

                                                                                                                                                             Ods