Il taccuino dello storico

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Pasolini, Michetti, D’Annunzio, Casalbordino. Per i cinquant'anni di Edipo Re(1967)

Proviamo a leggere la sceneggiatura di Edipo re, il film che Pierpaolo Pasolini realizza nel 1967. Cinquant’anni fa, il 7 settembre scorso. Ci soffermiamo solo sull’inizio della scena 17 – dal titolo Santuario di Apollo – in cui il grande intellettuale italiano scrive:

 

L’interno del santuario di Apollo è un po’ come una di quelle chiese, dipinte da Michetti. Una fanatica furia popolare, con orbi, storpi, madri con bambini, paralitici, famiglie intere e, in mezzo, orgoglioso tra i servi, qualche potente. L’interno del tempio risuona di voci e di preghiere e di lamenti e di canti. C’è gente che striscia per terra, avvicinandosi al sacello. […]

Riferimento per Pasolini è sicuramente Il Voto, il monumentale olio su tela conservato presso la Galleria di Arte Moderna di Roma che l’Abruzzese realizza tra il 1881 e il 1883. Senza dimenticare Gli storpi – centrato sul pellegrinaggio delle deformità umane al Santuario di Casalbordino –  l’altro capolavoro custodito presso il Mumi di Francavilla che Michetti realizza nel 1900 (insieme con Le Serpi) per l’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno. Certo, Pasolini è soggiogato da quella rappresentazione pittorica degli «idolatri» e del loro universo oltre che della complessa struttura etnoantropologica in cui è inscritta (i due giganteschi dipinti del Mumi misurano ciascuno m 3,80 x  m 9,70). Nei fatti, una forza iconica che trascina con sé l’ovvio legame tematico con il quarto libro del dannunziano Trionfo della morte (1894), segnatamente con la sesta parte dedicata per intero a Casalbordino. Ma più di tutto questo, per Pasolini sembra emergere l’attenzione per il teatro di Albano (concepito come alternativa mediterranea al Festspieletheater wagneriano di Bayreuth). Per quel «teatro di festa» che il Gabriele di Pescara aveva ipotizzato nel 1897. Per quella singolare teorizzazione di teatro/città che, per la prima volta, trovava elaborazione ne La città morta e che, in una lettera a Sarah Bernhardt del 13 novembre 1897, D’Annunzio si era premurato di tradurre in un allestimento scenotecnico che, a sua volta, sembra essere interamente riproposto nell’Edipo re pasoliniano. In effetti, quando Gabriele scrive: «[…] puisque dans le premier acte il y a un effect du soleil, presque une inondation de vive lumière […]» (in G. Tosi Les rélations de G. d’Annunzio dans le monde de théâtre en France, in «Quaderni dannunziani», VI-VII, ottobre 1957, p. 11), Pasolini non esita un solo istante a ribadire: «Un profondo, purissimo, glorioso sole investe la sagra davanti al tempio». E qui aggiunge: «Con il rombo potente della vita, emana un’umana gioia che sembra l’unica possibile forma della vita. Le baracche, le file dei pellegrini, i giochi, le corse e le ridde dei ragazzi, i lamenti dei mendicanti, e il frastuono delle musiche popolari che risuonano ora qua ora là, sembrano essere il segno della vera realtà del mondo che a Edipo ora è sfuggita». E D’Annunzio? Che cosa dice D’Annunzio sull’argomento? Il suo punto di vista viene profilato con queste parole in un brano de Il Fuoco: «Su la scena comune quelle imagini sono distanti così che qualunque contatto con loro ci sembra impossibile come il contatto con i fantasmi mentali. Esse sono distanti ed estranee. […]. La loro intima essenza è là, discoperta e messa in comunione con l’anima della folla […] dalle voci e dai gesti la profondità dei Motivi musicali che a quelle corrispondono […]».

I grandi personaggi dannunziani – Giorgio Aurispa, Stelio Effrena – sono figure straniate. Edipo lo è a modo suo: «passa in mezzo a quella folla come in sogno. Sembra non riconoscere più nulla. Si guarda intorno a bocca aperta, con il terrore negli occhi». Per tutti, comunque, è uno «spettacolo meraviglioso e terribile» che supera «i più torbidi sogni prodotti dall’incubo».

Il rapporto con la massa e con l’estraneo è il tema di fondo che viene affrontato da queste dramatis personae. Esse si misurano con la prossemica. In particolare con la paura della vicinanza, quasi a voler dire con l’Elias Canetti di Massa e potere: «dovunque l’uomo evita d’essere da ciò che gli è estraneo. […] Tutte le distanze che gli uomini che hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati». Qui si gioca con la modernità. Con l’arte che deve misurarsi gli ostacoli posti dalla folla. Giorgio, Stelio, Edipo trovano nella musica e nelle parole – tanto nella classica quanto nella popolare – la capacità di raccordare la bellezza alla moltitudine. D’Annunzio con gli Evviva MariaTutte le fundanelle passando attraverso la Camerata dei Bardi, Emilio de Cavaliere, Claudio Monteverdi (con il «recitar cantando» dell’opera italiana tra Cinque e Seicento in contrapposizione al Wort-Ton-Drama wagneriano). Per altra strada, il film di Pasolini si muove tra il Quartetto in do maggiore K465 di Mozart all’etnomusicologia romena e giapponese.

Con il riferimento apparentemente estraneo agli storpi di Casalbordino, l’etnografia diventa a un tempo testimonianza iconografica e artistica di una ritualità fino a quel momento descrittiva. Sono le fotografie di Francesco Paolo a rendere l’orrore di un mondo che stava cessando di essere chiuso alla modernità per diventare quel controllo della massa che solo la prima guerra mondiale avrebbe condotto a un’organizzazione sociale ben definita. Le istantanee di Michetti scattate tra il 1895 e il 1900, ben lungi dall’essere semplice schemi per la rappresentazione pittorica, costituiscono un discorso sulla «vita nova» che si si stava aprendo per l’Abruzzo del XX secolo e che il Pasolini di Edipo re avrebbe riconsiderato come traccia etnoantropologica. Un discorso importante sui beni culturali e sulla storia immateriale del paesaggio che Casalbordino potrebbe discutere in occasione del cinquantesimo anniversario del capolavoro pasoliniano.

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Le foto di Michetti sugli storpi di Casalbordino sono pubblicate in Francesco Paolo Michetti fotografo, a c. di M. Miraglia, Torino, Einaudi, 1975. I negativi sono su lastre stereoscopiche alla gelatina bromuro d’argento.

Luigi Murolo