Il taccuino dello storico

murolo luigi prof

Cauchemar: l’incubo della Zes!

Di una cosa si può essere certi. L’istituzione di una zona franca come la ZES segna in modo inequivocabile il fallimento delle politiche economiche regionale e il ritorno in pompa magna del centralismo statale – ma questa volta su concessione europea – nelle economie

del Mezzogiorno d’Italia. Altro che governance (sulla quale si sono consumati fiumi di inchiostro). Ma un banale atto di governement (ciò che in italiano si dice centralismo) che mette la parola fine all’equivoco sulla capacità politica delle cosiddette classi dirigenti locali. Ma ve l’immaginate? Si è discusso dell’arretramento della SS 16, quando già i governanti regionali stavano affrontando la centralità dei porti nella zona franca. Ma diamine! L’intermodalità del porto di Vasto con l’A14 e con l’area industriale della Val Sinello non presuppone la direttrice  torrente  Cena per  garantire il collegamento con l’area industriale del Trigno? C’è forse bisogno di qualche scienziato per capire che, nel momento in cui riferimento della ZES diventa il porto Punta Penna, le vie di collegamento  hanno in questo sito il proprio snodo? Mi chiedo: quando l’Arap (agenzia regionale attività produttive) dovrà provvedere – entro Aprile (!) – a  perimetrare i siti che entreranno a far parte della nuova superficie industriale le aree portuali e retroportuali (si noti bene: retroportuali!), non dovrà forse  considerare decisivo il percorso del torrente Cena? E dico ancora: quale fiducia si può avere di una regione che, dopo aver strillato per ottenere la ZES, non conosce nemmeno i percorsi viari? In contemporanea, per un verso si discute di collegamento con la marina di Vasto e per l’altro si richiede uno spazio industriale con polarità Punta Penna e l’autostrada. Una follia!

E poi che cosa si può dire di classi dirigenti che, dopo aver favoleggiato di parchi, di trabocchi, piste ciclabili e non so bene di che cos’altro, tutte insieme appassionatamente si fregiano di aver ottenuto cotanto risultato. E così, per aziende che, dopo sette anni possono delocalizzare, impegnano una superficie di 1702 ha (17 kmq. Pari all’estensione di un comune come S. Salvo di 19,7 kmq.) Ma stiamo scherzando? Magari ospitando nuovi depositi di stoccaggio di rifiuti di amianto come a Ortona che, dopo la colmatura, viaggeranno verso Rocca S. Giovanni.  Davvero ospitale e accogliente la Costa Teatina.  Stiamo parlando di quella zona che sarebbe dovuta diventare un Parco con tanti trabocchi. Più che di trabocchi, parlerei di trabocchetti. Questi sì, regalati a dismisura. Come «i pesciolini e i tanti fiorellini di lillà» di cui parlava in tempi remoti quell’innocua canzoncina dal titolo La casetta in Canadà che oggi tornerà in auge soprattutto dopo il trattato CETA (acronimo di Comprehensive Economic and Trade Agreement) tra Canada e UE siglato in forma provvisoria il 21 settembre 2017. Tenendo conto delle belle parole leggibili sul Web, una volta applicato, l’accordo economico offrirà alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e sosterrà la creazione di posti di lavoro in Europa. Perché questo riferimento? Sarà certamente un caso, ma dopo tale accordo, anche se utilizzate in Cina e in Polonia, la realizzazione delle ZES ha subito una forte accelerazione nel Mezzogiorno d’Italia.

E il rapporto con le aree protette?  Non ci sono problemi. Già si conosce il mantra: la ZES potrà tranquillamente convivere con l’ambiente. A tal proposito mi piace ricordare en passant le dichiarazioni di quel tale che procedeva a analoghe dichiarazioni quando, nel 1982, il IV PEN (piano energetico nazionale) prevedeva l’installazione di una centrale a carbone con quattro unità produttive da 640 Mw ciascuna. Era quello il periodo in cui Italia Nostra (e successivamente il WWF) si battevano per l’istituzione di una riserva (chiamata allora “speciale”) per Punta d’Erce (senza dimenticare, qualche anno più tardi la battaglia contro quell’azienda che voleva costruire un porticciolo alle Libertine, nelle prossimità di Punta d’Erce). Va da sé che con una centrale a carbone da 2560 Mw si sarebbe potuta realizzare un’area di riserva molto ma molto speciale destinata a ospitare alti cipressi con tantissime belle croci di marmo.

Che  posso dire. Non ho mai creduto alla possibilità di istituire parchi, aree verdi, di riserva in quanto elementi strutturali e connotativi di un ambiente. Non ci ho mai creduto per la semplice ragione che le pratiche di governamentalità  prodotte delle classi dirigenti locali sono sempre rimaste interne al paradigma fordista della fabbrica.  E malgrado le crisi ricorrenti che hanno investito le aziende manifatturiere – penso, ad esempio, a quelle della Val Sinello – tutti hanno fatto finta di non capire che quel modello di industrializzazione è già da tempo fuori mercato, dato che il profitto di impresa si determina sulla riduzione del costo del lavoro. Che lo si voglia o meno, la delocalizzazione è il destino implicito in questa tipologia di impresa. Con la globalizzazione, sempre interessata a trovare non-luoghi buoni solo per il reperimento di forza-lavoro  in svendita.

La politica cerchiobottista della regione ha sempre cercato di mantenere in piedi il doppio  registro dell’ambiente e dell’industria. Da un lato, le mirabolanti proposte di una costa preservata, e dall’altro con  la combinazione di porto e industria così come aveva voluto Enrico Mattei nel 1964 con la costituzione del Nucleo Industriale del Vastese con sede a Vasto in via Silvio Pellico, n. 10. Certo, allora si seguiva il modello neokeynesiano dello sviluppo cumulativo e, segnatamente, la teoria dei poli di sviluppo elaborata da François Perroux e fondata sulla capacità di trascinamento delle economie di scala. Su questa visione della croissance si innestava il IV PEN, ideato per la produzione nazionale di energia. Che, in ogni caso, nulla aveva da dividere con i poli di sviluppo ma che di questi si limitava (!) a utilizzare le aree industriali nelle prossimità di porti (chissà come sarebbe stato nero il porto carbonifero di Vasto!). Vedete. Allora era possibile sostenere battaglie ambientaliste: di fronte c’erano istituzioni nazionali che dovevano rispondere alle richieste di cittadini. Ma come si fa oggi a poter tentare strade di questo genere quando si hanno davanti forze senza volto e senza identità?

Già. Per le cosiddette forze politiche si tratta sempre di mantenere una via d’uscita (l’industria) giocando, come un tempo, sui posti di lavoro. Ma direi che, se sono stati brave a chiudere il COTIR (quanti ettari di terra sono stati immobilizzati per una struttura destinata alla chiusura?), non danno alcuna fiducia soprattutto quando puntano sull’istituzionalizzazione di zone franche come la ZES. Faccio notare una sola cosa. Che dall’iniziale assenza dell’Abruzzo in tale contesto si è passato in una prima stesura con 986 ha fino all’ultima di 1702 ha con l’aggiunta di Termoli e dei suoi 516 ha pari a 5 kmq. L’inzessamento (bel neologismo) del nostro Adriatico è un fatto compiuto. Si tratta ora di lanciare, come obiettivo minimo, la sfida sulla perimetrazione e di puntare sulla minima di 650 ettari. L’invito è rivolto non solo agli ambientalisti ma alle amministrazioni dei comuni che insistono sulla fantomatica costa dei trabocchi. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.

Luigi Murolo