Il taccuino dello storico

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Transizioni adriatiche. Per un'antropologia del NA-NAŠU, la lingua dei croati del Trigno

Ho sempre parlato di transizioni adriatiche per quelle correnti migratorie che, soprattutto nel corso dei secc. XV-XVI, hanno caratterizzato un vero e proprio sradicamento insediativo delle popolazioni dell’area balcanica, dall’oriente equoreo verso le plaghe

occidentali del nostro mare frontaliero (movimenti metanastasici, li aveva definiti il geografo serbo Jovan Cvijić). Più che movimento, dunque, è l’idea di passaggio (definitivo, senza alcuna possibilità di ritorno) quella che meglio connota il viaggio forzato degli Schiavoni attraverso l’immenso spazio liquido che li accoglie e li respinge a un tempo. Il bagaglio non è molto ingombrante: il proprio corpo, la lingua di cui sono locutori, la cultura materiale di cui sono portatori. Il loro trasporto per mare – restituito sub specie inventionis in tempera su tavola nella parte in basso della pala per La traslazione della Santa Casa di Loreto (cm 240 x 365) di Saturnino Gatti (1510 ca.) conservata presso il Metropolitan Museum of Art di New York (fig. 1) – avviene per mezzo di trabaccoli (imbarcazioni a doppio albero con carena arrotondata, chiglia e paramezzale, prua e poppa piene, interamente pontate, con stiva centrale). Oltre lo sconosciuto orizzonte della distesa d’acqua, nessuno di loro sa che cosa li attenda. A ogni buon conto, un esilio per la salvezza ritenuto di certo migliore di una stanzialità condizionata dalla conquista turca. Nei fatti, l’assenza di turchismi nel dialetto croato molisano pone la facies di migranza nel periodo anteriore all’espansione ottomana, anche se la Croazia non sarà mai balcanizzata.

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Saturnino Gatti, La traslazione della Santa casa di Loreto.       In basso, la migrazione su trabaccoli

La “terra incognita” verso cui quelle popolazioni tendono è però già “immunizzata”. Le ondate di profughi superstiti dalle traversate non restano nelle città rivierasche – aperte ai soli traffici dei ricchi mercanti ragusei – ma indirizzate altrove. Le Udienze vicereali di Capitanata e di Abruzzo Citeriore (in quel periodo, il Molise non ha affacci sul mare. Termoli, ad esempio, è ancora Capitanata) dislocano quelle ingenti masse umane al ripopolamento di paesi in via di abbandono o già abbandonati. In questa prospettiva, i Croati della Narenta vengono destinati a occupare le propaggini molisane del Basso Trigno (grosso modo comprese tra Palata e Montefalcone). Al contrario, nel caso dei villaggi di neofondazione, la scelta cade sui percorsi tratturali – da questo punto di vista, risulta emblematica la vicenda di Villa Cupello, sorta alla confluenza dei tratturi Centurelle/Montesecco e Lanciano/Cupello. Qui, tra l’altro, l’insediamento slavo recupera l’intitolazione altrimenti inspiegabile di una chiesa alla Madonna del Ponte, tipica della cultualità di Lanciano –. Una cosa va precisata. I luoghi dove una parlata si estingue generano fenomeni di sostrato (fenomeni, cioè, che vedono la lingua scomparsa influenzare l’altra superstite. Nell’area di Vasto, ad esempio, investita dall’insediamento slavo con il villaggio tratturale di S. Pietro Linari, sono stati rivenuti nel corso dell’Ottocento tre canti connessi culturalmente con l’altra sponda: La Madonna della Schiavonia, Marie a la vije di Caifasse, Mare Majje). Se è vero che il lutto per la distanza dalla patria perduta pietrifica la memoria degli Schiavoni allocati nei centri lontani dalle strade della lana, è ancor più vero che lo smarrimento di quella tradizione si “velocizza” nei paesi disposti su tali itinerari. Come si può notare, il rapporto con le vie di comunicazione determina la dialettica memoria/oblio della cultura di provenienza. In questa chiave, dunque, va storicamente letta la sua conservazione nell’enclave territoriale Acquaviva Collecroce/Montemitro/S. Felice del Molise.

 Il senso della transizione adriatica si avverte in un passo di un dialogo raccolto e pubblicato nel 1911 da Milan Rešetar nell’allora pionieristico libro di ricerche dal titolo Die Serbokroatischen Kolonien in Süditaliens (Le colonie serbocroate nell’Italia Meridionale. Il testo, disponibile in traduzione italiana a c. di Walter Breu e Marina Gardenghi, Campobasso, Amministrazione Provinciale, 1997, è scaricabile integralmente dal sito www.kruc.it). Sono domande – quelle – che tradiscono il nóstos (ritorno a casa) verso cui avevano teso lo sguardo le successive generazioni di immigrati: «Kako govoreš ti? Tvoj grad je do ne bane? Maš po pomor?» – Come parli tu? Il tuo paese è dall’altra parte? Devi andare per mare? – (e qui, sintetizzato nei secoli successivi, con segno inverso, torniamo al bagaglio leggero del migrante d’antan: il corpo, la lingua e la cultura materiale, il trasporto sulla via d’acqua). Da questo punto di vista, i nóstoi dell’antico idioma štocavo-icavo (o, se si vuole, na-našu nella forma avverbiale locale derivata dalla denominazione naš jezik – nostra lingua –) sfocano poeticamente l’impossibilità di quel momento sognato dalla memoria. Il locutore dell’arcaica parlata croata, consapevole di siffatto stato di cose nel lontano XIX secolo, non avrebbe esitato a rispondere: «Zgore, zgore, brat. Svit je-veće veliko dő-mor» – sopra, sopra, fratello. Il cielo è più grande del mare –.

Nei fatti, gli odierni eredi di quegli antichi passages equorei vivono una condizione di adstrato. Vale a dire, una situazione in cui l’influenza di una lingua sull’altra non ha determinato la scomparsa di una delle due. Certo, l’idioma originario viene considerato dialetto. Ma con un interrogativo: si tratta forse solo di questo? Non proprio. Occorre tornare a quanto aveva ideologicamente sostenuto il giacobino Nicola Neri di Acquaviva Collecroci salito sul patibolo borbonico con la rivoluzione partenopea del 1799. «Nemoite zgubit naš jezik – non perdete la nostra lingua –», ricordava il patriota della nazione napoletana. Alla base, dunque, un moderno concetto di alloglossia, che rivendicava un’autonomia della comunità nel contesto più generale della geopolitica meridionale del tempo.

Nicola Neri, dunque, sembra prefigurare il paradigma legislativo per la tutela delle minoranze linguistiche nel corso della brevissima organizzazione statuale repubblicana del Sud (Non dimentichiamolo. Liberato dal carcere, Neri occupa un ruolo non secondario nell’apparato rivoluzionario filofrancese: è Commissario organizzatore nel Dipartimento del Sangro, nel momento in cui le élites al potere modificano l’organizzazione periferica dello Stato da provinciale in cantonale; le cosiddette, municipalità). Come si può notare, le parole del Neri non sono semplici petizioni di principio di un intellettuale che, seppur molto avvertito – tra l’altro, medico –, risulta estraneo alla partecipazione ai movimenti sociali e di pensiero. Ma, al contrario, ci si trova davanti a dichiarazioni di un uomo politico che opera fattivamente per la trasformazione della sovranità meridionale. Che cosa si può dire! La storia ha preso un’altra direzione. Ma, per quanto non si voglia, quella voce continua comunque a rimanere pietra scagliata contro ogni forma di autoritarismo e centralismo linguistici.

L’Unesco ha lanciato l’allarme sul rischio di scomparsa delle lingue minoritarie nel mondo. Tra queste – anche se in forma meno aggredita rispetto alle altre –, il na-našu, lo slavo molisano che presenta le seguenti caratteristiche: tre generi: maschile, femminile, neutro; tre numeri: singolare, plurale, duale; una declinazione con sette casi: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo, locativo, strumentale. La possibilità di raccogliere in una grande manifestazione la cultura di una specifica tradizione declinata in tutte le sue varianti avrebbe una caratteristica generale: dimostrare come solo la permanenza della biodiversità linguistica – che testimonia attraverso la parola i diversi modi in cui gli uomini si sono insediati sulla Terra – possa restituire la straordinaria immagine molteplice e plurale delle opere e i giorni che hanno segnato e segnano le comunità di zoè; vale a dire, le comunità viventi.

Un Festival dei Balcani in Italia – dove oltre alle resistenti collettività di adstrato hanno spazio anche quelle di sostrato – può costituire l’avvio di un diverso punto di vista sul problema. L’idea è tutta qui.

Mi chiedo: è il caso di riempire di contenuti questa eventuale ipotesi di lavoro?

Luigi Murolo