Il taccuino dello storico

presepe settecentesco

Il presepe settecentesco di Antonio Vassetta

L’anno è il 1936. Una singolare donazione afferisce nel Museo Comunale del Vasto. È un presepe. Un presepe “portatile” realizzato in una teca di legno di noce. Intarsiata, chiusa da vetri e con la costruzione interna in cartapesta. A dirla in breve, una sorta di campana

(in qualche modo riconducibile a quella dei santi trasportata di casa in casa) che, su tre lati, consente la visualizzazione di una Natività rimasta di fatto ignorata. Fin qui nulla di particolare o speciale. Al contrario, la cosa che lascia stupefatti – o ancor meglio, sconcertati – è la didascalia che accompagna l’esposizione dell’opera in miniatura. Che cosa dice la breve legenda? Presto detto. Che si tratta di un lavoro di Giuseppe Palizzi pervenuto in città grazie alla donazione del 1898 voluta dal fratello Filippo di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita. Ora, io non so da dove l’estensore della noticina (probabilmente risalente al 1986) abbia tratto tale notizia. Ma stando alla ricca documentazione archivistica conservata a Vasto sappiamo che Filippo Palizzi dona alla città di nascita 67 tele (e ciò sulla base dell’inventario compilato dall’ing. Luigi Laccetti, delegato del Consiglio Comunale di Vasto presso la sua abitazione per il ritiro dei quadri). Nessun altro oggetto artistico. Insomma, sappiamo che risultano essere sessantaquattro dipinti di Filippo, uno di Francescopaolo, due di Giuseppe (segnatamente Scena romantica e Foresta di Fontainebleau). Come si può comprendere dalla lettura della lista, nessun riferimento a un presepe. Ma ciò che conta è l’assenza dello stesso nell’altro elenco generale dei pezzi conservati nel Museo civico compilato nel 1933. Da questo punto di vista, la fervida immaginazione dello schedatore, pur di riempire un modulo, sembra esser volata di fiore in fiore per regalare all’ufficio da cui dipendeva un campionario di simpatiche e dilettevoli trovate.

Ma fatta questa precisazione, la domanda che si pone è la seguente: una volta escluso Giuseppe Palizzi, che cosa resta? Senza ulteriori giri di parole, nulla di quanto didascalizzato. Al contrario, ci si trova di fronte a una rappresentazione di fatto sconosciuta che sembra rinviare a una tradizione locale – per così dire, «portatile», della Natala Sandǝ –, anteriore a quella prodotta a metà Ottocento dall’irruzione sulla scena dei cosiddetti pupattelli di Munzù (soprannome di Domenico Miscione e dei fratelli Giuseppe e Michele) che avrebbero indirizzato la sensibilità dei fideles verso la cultura domestica e individualizzata del «presepe popolare napoletano». Vale a dire, un universo iconologico sociologicamente e folkloricamente del tutto estraneo, come l’altro, al mondo gioioso del cosiddetto «presepe colto» di impianto gesuitico ma sempre di tradizione partenopea, dove l’annuncio dell’Agnus Dei è ipotizzato in un ambiente rustico e la Sua nascita sulle rovine di un tempio romano. Stando così le cose, un’altra domanda va posta: chi risulta essere il donatore del pezzo in questione? Un documento datato 26 maggio 1936 (che qui viene pubblicato) svela l’arcano: si tratta essere di Luigi Anelli, direttore del Museo Archeologico Comunale del Vasto che, ad futuram rei memoriam, precisa il nome dell’autore: il falegname vastese Antonio Vassetta, titolare dell’omonima bottega artigiana, vissuto nel XVIII secolo. Sulla base di questa indicazione, ho ritrovato nel Catasto Onciario (1742) – conservato presso l’Archivio Storico Comunale di Vasto – lo stato di famiglia di questo ebanista, nato nel 1727 da Giuseppe Nicola (anche lui ebanista) e da Cintia Petrilli. Una famiglia di falegnami, insomma, che consegna una lettura teologico-figurale tutta centrata sul paesaggio con la grotta posta verso il basso di un unico monte (o “scoglio”) – dove annuncio e natività si fondono in un solo ambiente – e non su di un piano circondato da monti (interpretazione probabilmente suggerita dal cugino sacerdote di Antonio, Giovanni Vassetta, o dall’altro, Gioacchino Vassetta, clerico regolare della Madre di Dio, divenuto in seguito vescovo di Castellaneta). Nei fatti, l’opera mette in campo una sorta di descensus ad inferos che, rileggendo scenograficamente quel passo del Credo apostolico in cui è scritto «descendit ad inferos, / tertia die resurrexit a mortuis», vede il Natale come anticipazione figurale di morte e resurrezione del Nazareno sul versante spirituale, e non come vittoria sul paganesimo romano. E qui, per cogliere meglio il senso metaforico della trasposizione paesaggistica in prospettiva tomistica, vale la pena seguire gli otto articoli della pars III, quaestio 52, della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino (interamente tradotta in italiano e disponibile sul sito webwww.gliscritti.it/dchiesa/summat/summat.htm.) in cui viene affrontato il tema della discesa e risalita del Cristo dagli inferi. 
La vera particolarità che emerge dall’impianto presepiale di Vassetta è la netta separazione tra prossimità e lontananza dalla grotta: nel primo caso popolata da pastori, nel secondo da animali. Qui sembra emergere l’influenza di un racconto locale tramandato dal poeta Gabriele Rossetti – probabilmente ascoltato da bambino dalla voce di mamma Francesca Pietrocola, contemporanea del Vassetta – e trasformato dall’exsul immeritus in una delicata favola natalizia. Così, diversamente dal riuso gesuitico del Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo nel quale «si avverò quanto era stato detto dal profeta: i lupi pascoleranno con gli agnelli. Il leone e il bue mangeranno insieme la paglia. C’erano infatti due buoi e un carro nel quale portavano le cose necessarie e lungo il cammino li guidavano i leoni», gli stessi animali della favola bella (il più umile di tutti: un vermiciattolo) troveranno il giusto premio in un tempo futuro con l’abbandono del proprio corpo terrestre metamorfizzato in una lucciola che, con la sua luce intermittente, si libra verso l’alto:

« Era la notte di Natale e il bambino Gesù, nato da poco, non aveva abiti, ma tanto, tanto freddo. Vi erano nella stalla un bue e un asinello che lo riscaldavano con il fiato. Una gallina da sotto una trave della stalla si scrollò di dosso tutte le penne in modo da formare un piccolo giaciglio; una pecora diede la sua lana per coprire il corpicino di Gesù, mentre un ragno filò una piccola cuffietta di tela intorno al suo capo.
Solo un piccolo vermiciattolo non sapeva cosa donare a Gesù e, vedendo fra la paglia della stalla un fiore appassito, lo raccolse e lo pose nelle mani del bambino che lo benedisse. Giunse il mese di maggio e il vermiciattolo sentì qualcosa sul suo dorso e vide che gli spuntavano le ali e una luce si spegneva e accendeva ad intervalli sulla sua coda: era diventato una lucciola! Uscì dalla stalla e vide tante altre lucciole che volavano per la campagna. Gesù bambino aveva così voluto premiare il buon vermiciattolo, donandogli un po’ della luce della notte di Natale. Così ogni anno, a Maggio, si rinnova il miracolo e tante lucciole illuminano la notte, come dice una vecchia filastrocca ripetuta dai bambini abruzzesi, “pe’ mare e pe’ terre, e pe’ tutte le casarelle” ».

La narrazione rossettiana è tutta qui. Di straordinaria importanza per comprendere la specificità del «presepe popolare»: quello vastese dei Munzù, per intenderci, non quello «colto» che ha il suo archetipo nella tradizione napoletana di S. Gregorio Armeno. Diciamola tutta. La regula popolare vuole che il presepe si dispieghi dal 2 novembre, giorno della «śśįụta d’ålmǝ da lu Prįǰåtǫriĵǝ» al 6 gennaio, giorno del loro rientro. Già, le anime del Purgatorio escono dalla terra per rientrarvi in quel periodo pre- e post natalizio compreso tra il pieno autunno e l’inverno appena entrato. Con la ruota del tempo che scandisce sempre lo stesso cammino. La lucciola, no. Una volta lasciato il corpo di verme lo lascia per sempre per andare più su, sempre più in alto con la sua lucettina in attesa di un unico ritorno: la parusia.
Mi chiedo: è questa la lezione trasmessa dal presepe del vastese Antonio Vassetta che lo stesso Gabriele Rossetti ci invita, in qualche modo, a seguire?

Luigi Murolo

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