Inclusione di Sansalvomare

Immigrazionemare

Immigrazione e ideologia (parte II)

Continuando il discorso sull’immigrazione, prima di una riflessione sulla situazione Italiana concludo il ragionamento avviato nel precedente articolo “Immigrazione e ideologia (parte I)”. Osservando questa massa crescente di immigrati che sbarcano

sulle nostre coste, viene sicuramente in mente quello che Karl Marx descrive nel primo libro del Capitale “l’esercito industriale di riserva”. Concetto spesso ripreso dal filosofo Diego Fusaro che parla di “homo migrans”, individuo sradicato dalla sua terra e che viaggia indifeso da un Paese all’altro, in cerca di aiuto e pronto ad essere utilizzato da un sistema che ha come unico obiettivo quello di fare profitto. Un uomo sfruttato, che svolge un lavoro sempre più precario e mal retribuito, vulnerabile e privo di diritti. Si potranno avere anche opinioni diverse al riguardo, ma se si osserva attentamente la realtà, ci si rende conto di quanto, oggi più che mai, queste parole siano vere. Osservando nello specifico la situazione italiana, ciò che salta agli occhi è la mancanza di idee di una classe politica senza spina dorsale, incapace di fare scelte e che continua a subire il fenomeno basando la sua azione solo su una presunta solidarietà, sperando forse nel potere taumaturgico del futuro, come se il tempo portasse da sé le soluzioni. Si sentono anche ragionamenti che partono da basi sensate, come quello di Tito Boeri presidente dell’Inps, che fa riferimento alla mancata crescita demografica italiana se si esclude l’immigrazione, che però arriva a conclusioni incomplete e superficiali, del tipo: ne abbiamo bisogno perché garantiranno il futuro delle nostre pensioni, quindi accogliamoli. Innanzitutto con un’affermazione del genere si genera confusione, trattando il problema pensionistico unicamente come problema demografico, e dimenticando che quest’ultimo è un problema soprattutto politico ed economico-sociale. Inoltre questo modo di ragionare si fonda sul presupposto che gli immigrati andrebbero a rimpiazzare la forza lavoro, in quanto il nostro è un Paese con sempre meno giovani, e con molti presunti lavori che gli italiani non vogliono più fare. È un ragionamento che non convince ed è facile trovare i punti di debolezza. Iniziamo con lo smentire il luogo comune dei lavori che gli italiani non vogliono più fare; forse questo era vero qualche anno fa, ma negli ultimi tempi credo che un po’ tutti stiano abbassando le proprie aspettative lavorative. Inoltre la frase è incompleta, perché bisognerebbe specificare che gli italiani non vogliono fare lavori dequalificati a certe condizioni. Probabilmente non accettano di lavorare in nero nei campi a meno di 3 euro l’ora, per 12 ore al giorno. Però ci si dimentica di precisare che quello non è lavoro! Inoltre i dati Istat sono impietosi, e mostrano una disoccupazione giovanile che al di là dei trucchetti contabili è intorno al 40 per cento. Per dovere di completezza bisogna aggiungere che, pur se aggravato negli ultimi anni, quello della disoccupazione è un problema endemico del nostro Paese, non siamo riusciti a debellarlo neanche nel periodo più florido del boom economico, quando nonostante l’enorme produzione di ricchezza, l’offerta di lavoro eccedeva la domanda. Bisognerebbe avere il coraggio e l’onestà intellettuale di riconoscere che in un Paese in queste condizioni gli immigrati andrebbero ad ingrossare le fila dei disoccupati, trattandosi di manodopera aggiuntiva e non sostitutiva, in concorrenza e spesso disposta ad accettare qualsiasi condizione. E secondo voi, chi trae giovamento da tutto ciò? Basta darsi una risposta per individuare il vero problema, senza lasciarsi depistare da sentimentalismi e frasi ad effetto. Bisognerebbe anche trovare il coraggio di dire all’America che è ora di smetterla di “esportare democrazia” con le armi in giro per il mondo, perché i conti di siffatta politica li stiamo pagando a caro prezzo. Ma non basta, sarebbe necessario un mea culpa, ed ammettere di aver compiuto un enorme errore nell’affiancare Francia e Inghilterra nella guerra alla Libia, Paese con il quale intrattenevamo rapporti politici e accordi commerciali. Uno Stato quest’ultimo che in questo momento è al centro del flusso immigratorio, che si ritrova con conflitti interni tra milizie tribali e un debole governo che non ha l’intero controllo del Paese. In un contesto del genere, non bisogna stupirsi se iniziano a diffondersi fenomeni xenofobi. La storia avrebbe dovuto insegnarci che certi eventi non sono casuali, ma derivano dall’assenza della politica, e che quando si crea un vuoto c’è sempre qualcuno pronto a riempirlo. Quindi è illusorio credere di risolvere il problema con proposte di legge da un lato contro l’apologia di fascismo, e dall’altro con lo ius soli. Ma non basta neanche recitare la fatidica frase pronunciata sempre più spesso: “aiutiamoli a casa loro”. Formula che dice tutto per non dire nulla, ma sembra mettere un po’ tutti d’accordo perché allontana il problema e mette in pace le coscienze. Nella realtà è una ipotesi che da sola non servirebbe assolutamente a niente, mentre se attentamente analizzata e accompagnata da altri interventi potrebbe avere una certa efficacia. Mi spiego meglio: spesso non è possibile aiutarli a “casa loro”, o perché non hanno più una casa, in quanto distrutta dalla guerra, o perché non esiste un governo con il quale trattare, e se c’è con molta probabilità si tratta di una feroce dittatura che incasserebbe gli aiuti economici e ne distribuirebbe una parte agli oligarchi, lasciando il popolo nella miseria. A conferma che l’economia di mercato funziona ed è compatibile con i sistemi democratici, altrimenti produce effetti devastanti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, nella quale riuscissimo davvero ad aiutarli nei loro Paesi, allo stato attuale si presenterebbero problemi ancora più complessi. Infatti in un mondo dominato da un processo di globalizzazione senza regole, nel volgere di pochi anni ci ritroveremmo un nuovo Paese emergente a farci concorrenza sleale, in compagnia della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo. Quindi compreso l’entità del fenomeno, se ne deduce che il problema è veramente di difficile soluzione, e lo si può affrontare in un solo modo: iniziando a fare politica, ma quella vera, quella con la P maiuscola, mettendo subito in atto una serie di riforme coerenti e coraggiose che riguardino gli Stati, i Continenti e i loro rapporti. Esplicito meglio quest’ultima affermazione: a livello mondiale bisognerebbe immediatamente modificare questa globalizzazione selvaggia, dove in assenza di regole condivise non c’è competizione ma “stato di natura”; a livello Europeo porre in essere una seria politica di accoglienza e integrazione, fissando delle quote e degli impegni precisi per ogni Stato; e a tutto questo bisogna aggiungere una politica di risanamento a livello nazionale. Faccio un inciso prima di spiegare meglio quest’ultimo punto: la problematica deve riguardare e coinvolgere tutti i cittadini, in quanto spesso assistiamo a chi con leggerezza e un po’ di snobismo pronuncia frasi solidaristiche, perché tutto sommato si trova in situazioni di privilegio, vive nei quartieri ricchi delle grandi città, e si illude pensando che in fondo il problema non lo sfiori, perché tutto sommato riguarda le periferie con le quali  non ha contatti. Inutile sprecare parole su questi atteggiamenti miopi ed egoistici, che servono invece a farci capire che bisogna guardare il problema con gli occhi dei cittadini italiani che vivono ai margini, che spesso per dignità non elemosinano aiuto ma non credono più nella politica, non partecipano alla vita pubblica e se lo fanno si dirigono verso gli estremismi. Dovremmo smetterla con la retorica e porre in essere riforme concrete. Di conseguenza, quando parlo di politica di risanamento, mi riferisco ad azioni pragmatiche, delle quali faccio un elenco esemplificativo ma non esaustivo: abbassare il tasso di disoccupazione; fornire servizi idonei ai cittadini, con la manutenzione delle strade, delle scuole e dell’ immenso patrimonio pubblico italiano; dare un sostegno ai 4 milioni e 598 mila  italiani che vivono sotto la soglia di povertà, fornire un tetto ai terremotati che a distanza di anni continuano a dormire sotto le tende. Quando i cittadini italiani ricominceranno a sentirsi tali, e torneranno ad essere orgogliosi del loro Paese, sicuramente non guarderanno “l’altro” con diffidenza o come temibile concorrente, ma saranno ben disposti alla solidarietà. Perché gli italiani sono sempre stati e continuano a essere un popolo aperto e tollerante, ma come è naturale che sia, per poter pensare agli altri è prima necessario pensare a se stessi e alla propria famiglia. Raggiunto un certo equilibrio e grado di benessere, ci si può altruisticamente dedicare al prossimo. Tutto il resto è ideologia.

Vito Evangelista